Alla presentazione dell’VIII Rapporto GIMBE sullo stato del Servizio Sanitario Nazionale, svoltasi l’8 ottobre a Palazzo Montecitorio, ha partecipato anche la UIL FPL. Un momento di ascolto e analisi fondamentale per chi rappresenta e gestisce la sanità pubblica: conoscere i dati reali è il primo passo per orientare, ai tavoli contrattuali e nelle scelte politiche, decisioni giuste e azioni concrete per il rilancio del sistema.
Il Rapporto GIMBE 2025 sullo stato del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) non lascia spazio a interpretazioni: la sanità pubblica italiana si trova in una crisi strutturale, frutto di anni di sottofinanziamento, blocco del turnover e scarsa attenzione alle condizioni di chi ogni giorno garantisce il diritto alla salute. Il quadro che emerge è quello di un sistema che resiste grazie alla professionalità e al senso di responsabilità del personale sanitario, ma che rischia di collassare se non arriverà presto un cambio di rotta politico e finanziario concreto, stabile e duraturo.
Nel 2024 la spesa sanitaria totale ha raggiunto 185 miliardi di euro, ma solo 137 miliardi – pari al 74,3% – provengono da fondi pubblici. La quota privata, sostenuta direttamente dalle famiglie, è ormai al 22,3% e continua a crescere. Il finanziamento pubblico in rapporto al PIL è sceso al 6,1%, ben al di sotto della media europea (6,9%) e di quella OCSE (7,1%). Se questa tendenza non verrà invertita, nel 2028 si arriverà al 5,8%, consolidando il definanziamento strutturale della sanità italiana.
Le conseguenze di questa situazione sono evidenti: oltre 5,8 milioni di cittadini nel 2024 hanno rinunciato a cure e prestazioni sanitarie, 3,1 milioni per motivi economici e 4 milioni a causa di liste d’attesa sempre più lunghe e insostenibili. A questo si aggiungono le disuguaglianze territoriali, ancora troppo marcate: il finanziamento sanitario pro capite varia sensibilmente tra Nord, Centro e Sud, con le aree meridionali che dispongono di minori risorse, strutture e personale. Chi vive nel Mezzogiorno ha dunque un accesso più limitato ai servizi sanitari rispetto a chi risiede nelle aree più sviluppate del Paese.
Questa non è una semplice questione contabile, ma una profonda frattura sociale e democratica. Un Paese che non garantisce in modo uniforme il diritto alla salute tradisce i principi costituzionali e abbandona i cittadini più vulnerabili.
A confermare la centralità di questo principio è intervenuta più volte la Corte Costituzionale, che negli ultimi anni ha riaffermato con chiarezza che la spesa sanitaria pubblica non può essere considerata una voce ordinaria di bilancio, soggetta agli stessi vincoli delle altre spese statali. Secondo la Corte, il diritto alla salute è un diritto fondamentale e inviolabile, e le risorse destinate a garantirlo costituiscono una “spesa costituzionalmente necessaria”, non comprimibile in nome di esigenze finanziarie.
Questa interpretazione segna il superamento della logica del “diritto finanziariamente condizionato” e impone alle istituzioni di assicurare al SSN risorse adeguate e stabili, in coerenza con l’articolo 32 della Costituzione. Continuare a considerare la sanità pubblica alla stregua di un costo tra gli altri significa, di fatto, negare un principio fondamentale dello Stato democratico.
La carenza di risorse si accompagna a una crisi del personale che non ha precedenti. Il personale dipendente del SSN conta 701.170 lavoratori, pari a 11,9 per 1.000 abitanti. I medici dipendenti sono 109.000, ma in Italia i medici complessivi sono 5,4 ogni 1.000 abitanti, un dato superiore alla media europea. Questo significa che i medici ci sono, ma non lavorano nel SSN: molti scelgono il settore privato o la libera professione a causa di retribuzioni inadeguate, turni gravosi e condizioni di lavoro sempre più difficili. Il risultato è una carenza funzionale di personale medico che incide sulla capacità operativa dei reparti, dei pronto soccorso e dei servizi territoriali.
La situazione è ancora più critica sul versante infermieristico. Nel SSN operano circa 277.000 infermieri, pari a 4,7 ogni 1.000 abitanti, contro i 9,5 della media OCSE. Il rapporto infermieri/medici è di 1,3, tra i più bassi d’Europa. A questo si aggiunge una crisi formativa preoccupante: per l’anno accademico 2025/2026, il rapporto tra domande e posti nei corsi di laurea in infermieristica è sceso a 0,9, segno di un crollo dell’attrattività della professione. Molti giovani scelgono percorsi alternativi o emigrano, attratti da migliori prospettive economiche e professionali all’estero.
Una professione centrale per la qualità e la sicurezza dell’assistenza è oggi sottopagata, demotivata e priva di riconoscimento adeguato. Questo rappresenta una criticità di sistema che deve essere affrontata con urgenza: senza un numero sufficiente di infermieri e medici nel pubblico, il SSN non può garantire livelli di assistenza adeguati. Servono assunzioni stabili, una valorizzazione economica e professionale e politiche di benessere organizzativo che restituiscano dignità e sostenibilità al lavoro sanitario.
Dopo anni di tagli e di blocchi contrattuali, i rinnovi del comparto sanità non possono più essere considerati un mero adempimento burocratico. Devono rappresentare un vero investimento strategico per il futuro del SSN. Servono aumenti salariali in linea con l’inflazione reale, percorsi di carriera chiari, valorizzazione delle competenze e riconoscimento delle responsabilità. Non è più accettabile che chi lavora nei pronto soccorso, negli ospedali o nei servizi territoriali sia retribuito meno dei colleghi europei a parità di impegno e rischio.
Il rinnovo contrattuale deve includere misure concrete per la sicurezza e il benessere lavorativo: una migliore gestione dei turni, la prevenzione del burnout e la riduzione dei carichi di lavoro. La sicurezza di chi lavora è parte integrante della sicurezza dei pazienti. Un sistema che non tutela i propri professionisti non può garantire cure di qualità né mantenere la fiducia dei cittadini.
In Italia, il personale sanitario tutto risente in modo particolarmente grave di queste condizioni.
I dati dello studio OMS evidenziano non solo un’alta prevalenza di burnout e disturbi depressivi, ma anche un preoccupante aumento dei casi di ideazione suicidaria tra medici e infermieri.
Le recenti politiche di detassazione degli straordinari e di potenziamento dei premi di produttività, pur nate con finalità incentivanti, finiscono di fatto per aggravare tali fenomeni: spingono gli operatori a lavorare ben oltre le 36 ore settimanali per raggiungere uno stipendio dignitoso, contribuendo a un modello di lavoro che incentiva il sovraccarico e lo sfruttamento piuttosto che il benessere e la sicurezza.
È ormai inaccettabile che la sostenibilità economica del sistema sanitario si regga sull’aumento degli straordinari e sul sacrificio psicofisico dei suoi professionisti.
Servono risorse strutturali, investimenti negli stipendi e nella valorizzazione delle professionalità, non incentivi temporanei che alimentano il disagio.
Il rinnovo contrattuale deve includere misure concrete per la sicurezza e il benessere lavorativo: una migliore gestione dei turni, la prevenzione del burnout, la riduzione dei carichi di lavoro e l’introduzione di reali strumenti di supporto psicologico.
La sicurezza di chi lavora in sanità è parte integrante della sicurezza dei pazienti.
Un sistema che non tutela i propri professionisti non può garantire cure di qualità né mantenere la fiducia dei cittadini.
È inoltre necessario investire in formazione e sviluppo professionale. Il Rapporto GIMBE evidenzia come il sistema formativo italiano non sia più in grado di produrre le competenze necessarie per affrontare le sfide di una sanità moderna. Occorrono percorsi formativi continui, qualificanti e retribuiti, che valorizzino le competenze cliniche, digitali, organizzative e relazionali. Bisogna promuovere modelli di carriera che consentano crescita professionale, responsabilità e riconoscimento economico, restituendo prospettive a tutte le figure del comparto sanitario.
La vera emergenza del SSN non è solo economica, ma anche umana e organizzativa. Il sistema continua a funzionare grazie all’impegno quotidiano di chi lavora nelle strutture ospedaliere e territoriali, spesso in condizioni difficili e con organici ridotti. È indispensabile un piano straordinario per il personale sanitario che preveda risorse certe, assunzioni stabili, valorizzazione professionale, formazione continua e tutela della sicurezza e del benessere lavorativo.
La sanità pubblica non è un costo, ma un investimento essenziale per il futuro del Paese. Difendere il SSN significa rafforzare la coesione sociale, tutelare la salute collettiva e garantire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Ogni euro investito nella sanità pubblica produce salute, occupazione, innovazione e sviluppo. Continuare a ridurre risorse e personale significa, invece, aumentare le diseguaglianze e spingere milioni di cittadini verso il privato, indebolendo uno dei pilastri fondamentali del nostro Stato sociale.
La UIL FPL ribadisce con forza che non c’è futuro per la sanità pubblica senza investimenti nelle persone che la rendono possibile. Conoscere i dati reali, come quelli emersi dal Rapporto GIMBE, è il punto di partenza per assumere decisioni fondate e costruire politiche sanitarie basate su evidenze e responsabilità, non su slogan. Servono risorse, assunzioni, formazione, contratti dignitosi e rispetto per il lavoro sanitario. È tempo di scelte coraggiose: salvare la sanità pubblica oggi significa garantire il diritto alla salute e al lavoro di domani.
A cura della Segreteria Nazionale UIL FPL